08 Aprile 2019 – Collatio Laboratorio 2: La santità, il volto più bello della chiesa

La dimensione contemplativa del carisma minimo
Leggendo l’Esortazione Apostolica di Papa Francesco “Gaudete et exsultate”
Le caratteristiche della santità nel mondo attuale
Relazione di Maria Serena Cefalà

Papa Francesco nella Gaudete et exultate scrive: “ La santità non è prerogativa privilegiata, né esclusiva di vescovi, sacerdoti, religiosi o religiose. Ma “tutti sono chiamati ad essere santi vivendo con amore e offrendo ciascuno la propria testimonianza nelle occupazioni di ogni giorno, lì dove si trova” (GE14). Da questa definizione viene evidenziato, che il primo compito per un cristiano e ancora di più per noi terziari minimi è “svuotarci”, annientare quell’Io che invece di far parlare di Dio, del Vangelo della carità, annuncia se stesso, mettendo al centro delle relazioni le sue voglie e i suoi desideri, le proprie visioni. Il Vescovo di Roma, dando delle indicazioni concrete e pratiche su come crescere nella via della santità, ha ricordato alcuni pericoli che possono allontanarci da questa comune vocazione. Al numero 115  della Gaudete et exsultate afferma: “è significativo che a volte, pretendendo di difendere altri comandamenti, si passi sopra completamente all’ottavo: “non dire falsa testimonianza”, e si distrugga l’immagine altrui senza pietà. Lì dice il Papa si manifesta senza alcun controllo che la “lingua” è il mondo del male e “incendia tutta la nostra vita traendo la sua fiamma dalla Geenna” (Gc 3,6). Da questa citazione della lettera di Giacomo, il Santo Padre, sottolinea come la crescita di un gruppo o di un’associazione, qual è la nostra, passa attraverso la costruzione di un ambiente al cui interno minimamente sono presenti, calunnie, critiche, o parole che possono annientare l’immagine e l’operato dell’altro. A tal proposito a partire da alcune lettere di Giacomo (capitolo 3° e 4°) si cercherà di evidenziare quali sono i “nemici” che possono ostacolare l’instaurazione di un vero ambiente evangelico in famiglia, a lavoro e nello specifico in un gruppo ecclesiale.

SCHIAVI DEL PETTEGOLEZZO E DEI GIUDIZI
Nel capitolo terzo Giacomo riprende due temi già accennati all’inizio della lettera: la moderazione della lingua e la vera sapienza. Certamente l’insistenza su questi punti mette in luce la realtà di comunità cristiane dove erano molto forti le divisioni, i giudizi tra persone, le lotte tra gruppi.

L’uso perverso della parola
Riprendendo i forti richiami di Gesù ai maestri della legge e ai responsabili della religione ebraica, riferiti da Matteo nel Discorso della Montagna  e nel Discorso contro gli ipocriti, Giacomo ammonisce se stesso e tutti i cristiani ad essere ben coscienti sulla responsabilità nell’uso della parola. La parola è un grande dono che permette di lodare Dio, di comunicare tra persone, di sostenere chi è in difficoltà, di cantare la bellezza e la gioia della vita, di dare espressione alla creatività umana e alla parola di Dio. Dio stesso si è fatto “Parola” per entrare in comunione più intima con l’umanità e manifestare la sua vita divina. Ma la parola è anche arma di offesa, strumento di menzogna, mezzo di sopraffazione verso i più deboli, causa di discordie, motivo di odi e violenze. Partendo dalla sua realtà di persona fragile e soggetta a sbagliare nel suo ruolo di responsabile, Giacomo riconosce i suoi errori e ne trae motivo per invitare i cristiani ad essere molto vigilanti sull’uso della comunicazione nella comunità. Rifacendosi ad antiche e molto diffuse concezioni proverbiali, fa sua una visione molto negativa della parola, presentata come una cosa malvagia e incontenibile, causa di molti problemi nelle convivenze umane e religiose. Assistiamo ad una inflazione di parole interessate, guidate, studiate per imbonire le persone, per guidarle a fini prestabiliti; siamo sommersi da un mare di parole vuote, false, dettate dal bisogno di suscitare consensi e applausi, più che dalla ricerca della verità. Una parola irrefrenabile e senza controllo per confondere, stordire e creare consenso. Veramente le parole di Giacomo illustrano una realtà ancora attuale! Ma la realtà della comunicazione umana non è solo negativa: permette anche spazi di dialogo e di partecipazione, di creatività e di rapporto fra persone e culture, di riflessione e di approfondimento, di crescita culturale e di ricchezza delle diversità, di espressione della bellezza e della gioia di vivere. Questa comunicazione, però, richiede regole di comportamento e lavoro di selezione, controllo nel modo di esprimersi e rispetto di ogni idea, gusto della ricerca e capacità di essere critici. La parola è dono che chiede silenzio d’ascolto e desiderio di ricevere, riflessione personale e scambio comunitario, ricerca del positivo e amore alla verità, coraggio di mettersi in discussione e rifiuto dell’interesse, purezza di cuore e rispetto di ogni persona. E’ la gioia e la fatica di comunicare in profondità! Anche nella Chiesa oggi assistiamo ad una inflazione di parole, di documenti, di interventi su ogni argomento e in ogni circostanza. L’invito alla moderazione e al controllo della comunicazione diventa importante anche per la comunità cristiana, tentata a volte di seguire e imitare i mezzi della comunicazione sociale nel loro modo di rapportarsi con la parola e la notizia. Siamo chiamati ad essere un segno con alcune scelte di comportamenti e di stile che privilegino i contenuti sulla forma, i valori sugli indici di ascolto, la riflessione pacata sulle emozioni violente, le esperienze positive sulle vicende di cronaca nera, i messaggi di vita sui resoconti di morte.

L’arroganza del giudizio
Sempre per collegamento con la frase precedente, Giacomo torna a sottolineare un aspetto già trattato nel discorso sulla comunicazione: l’arroganza di chi giudica le persone e sparla di loro. L’orgoglio che si annida nel cuore dell’uomo, se non è frenato e dominato, può portarlo a sentirsi superiore agli altri, a ritenersi possessore della verità e giudice del bene e del male nella vita delle persone. Anche questa è una causa di molti contrasti e litigi nelle famiglie e nei gruppi. Molte volte ritorna nel Nuovo Testamento l’invito a non giudicare mai nessuno, specialmente i più deboli e indifesi; a rispettare le scelte degli altri; a guardare i propri limiti più che quelli degli altri; ad essere duri verso se stessi e misericordiosi verso gli altri. L’arroganza della verità, e l’ergersi a giudici del bene e del male, porta fatalmente anche ad un altro fatto, ancora più grave e purtroppo molto diffuso: si arriva a giudicare Dio e il suo modo di agire, a voler insegnare a Dio come dovrebbe comportarsi con le persone, come dovrebbe intervenire nella storia. La troppa sicurezza di essere nel giusto e il ragionare secondo la logica umana (cioè con il metro della giustizia distributiva e del merito-castigo) porta spesso a dimenticare il messaggio che Gesù ha ripetuto tante volte e che Giacomo riprende qui: C’è uno solo che può giudicare: Dio. Gesù stesso non è venuto a giudicare le persone (anche se avrebbe potuto farlo a pieno diritto), ma a salvarle e ha affidato al giudizio del Padre la sua stessa vita e la storia dell’umanità. Di fronte all’esempio di Cristo, di fronte ai nostri limiti di persone e di Chiesa, come si può ergersi a giudici di tutto e di tutti? Come coltivare ancora quell’orgoglio della verità che ci fa unici detentori della salvezza e del bene? Come non superare atteggiamenti di durezza, di condanna, di esclusione, di intolleranza umana e religiosa? Con la stessa misura con cui voi trattate gli altri, Dio tratterà voi – la misura sarà la misericordia per chi avrà usato misericordia, il perdono per chi avrà perdonato, l’amore per chi avrà amato.

La superbia della vita
Con il termine “superbia della vita” Giacomo intende quell’atteggiamento di orgogliosa sicurezza e tronfia “sufficienza” di chi si crede padrone della propria vita e sempre a posto nei confronti di Dio. E’ l’atteggiamento che fa dimenticare il senso del proprio limite; che assolutizza le cose terrene; che fa perdere il riferimento alla Provvidenza di Dio e fa trascurare l’amore verso il prossimo. Non è l’uomo il padrone della vita e delle cose! A sostegno di questa dimensione umile e fiduciosa del vivere Giacomo cita un modo di dire popolare molto diffuso nell’antichità e presente ancora oggi in vari popoli: Se il Signore vuole. Lo era anche tra i cristiani di un tempo con l’ormai dimenticato “a Dio piacendo” dei nostri nonni. E’ solo un intercalare, ma può esprimere, per chi ha fede, un richiamo convinto al senso della Provvidenza e all’umile fiducia nel Dio della vita. L’ultimo versetto sottolinea un’altra conseguenza di questa superbia della vita: giustificare la scelta di pensare solo a se stessi, o alla propria famiglia, con il fatto del tanto lavoro, delle mille cose da fare, di non aver mai un minuto libero… Giacomo richiama alla coscienza dei doni che Dio ha affidato ad ogni persona, alla responsabilità di fare il bene che è nelle possibilità di ciascuno senza nascondersi dietro scuse di comodo o motivazioni familiari. Ad ognuno sarà chiesto conto di come ha usato i doni che ha ricevuto da Dio. Il tema delle “omissioni” ricorda gli ammonimenti di Gesù nei confronti dei responsabili ebrei  .

“La vita cristiana è un combattimento permanente. Si richiedono forza e coraggio per resistere alle tentazioni del diavolo e annunciare il Vangelo. Questa lotta è molto bella, perché ci permette di fare festa ogni volta che il Signore vince nella nostra vita”

Papa Francesco ci aiuta a capire che il cammino della santità è anche il cammino della croce, per essere capaci di “amare come Gesù ci ha amati” e non è mai un cammino solitario ma condiviso dove ci si aiuta come fratelli e sorelle figli di un unico Padre: «Chiediamo che lo Spirito Santo infonda in noi un intenso desiderio di essere santi per la maggior gloria di Dio e incoraggiamoci a vicenda in questo proposito».

Che bello pensare, credere e poter toccare con mano la santità di coloro che vivono anche vicino a noi e sono un riflesso della presenza di Dio.

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