Incontro formativo 13 maggio 2013
Panoramica generale sull’anno della fede
Dopo la recita dei Vespri P Antonio Casciaro ha riepilogato il cammino sulla fede che abbiamo percorso insieme durante questo anno sociale minimo.
Con l’incontro di questa sera, concludo i miei interventi di questo intenso anno formativo che ci ha visto percorrere insieme le fondamentali tappe che ogni devoto e figlio di S. Francesco deve pian piano raggiungere per testimoniare in maniera forte e coraggiosa il patrimonio spirituale che è contenuto nel nostro carisma minimo. Prima di inoltrarmi a fare un rapido excursus su quelli che sono stati i temi che abbiamo affrontato insieme, sento l’esigenza forte di ringraziare il vostro padre assistente e il consiglio di questa fraternità, per la geniale iniziativa che hanno avuto nell’invitarmi ad essere con voi una volta al mese. Dico geniale, non perché sono stato io in mezzo a voi, ma sicuramente, questa è una delle poche comunità, se non la prima, ad aver avuto una vasta apertura nel coinvolgere una persona esterna, direi un membro della stessa famiglia minima anche se non aveva la responsabilità, di intervenire nelle questioni spirituali di questa bella associazione. Tra i tanti benefici che ho ricevuto personalmente nel vivere questo anno sociale così intenso, permettetemi di leggere questa opportunità o esperienza come espressione di comunione che non cerca il proprio interesse, ma solo ed esclusivamente il bene, in questo caso di una fraternità, considerata da noi frati di questa parrocchia una ricchezza pastorale che può e deve incidere sul territorio e che deve crescere pur nella diversità di carismi, nella ricerca costante dell’unità, dell’amore vicendevole, e nello stesso tempo deve essere depositaria, di quel tesoro appartenente alla prima comunità dei cristiani, ammirata, seguita e che affascinava per l’amore che si viveva dentro e fuori la comunità.
Terminati dunque, questi doverosi ringraziamenti, voglio subito entrare nel tema di questa sera che altro non vuole essere, se non un ripercorrere, i temi che abbiamo affrontato durante l’anno, affinchè la nostra fede si possa sostenere anche a partire da una solida riflessione.
Se vi ricordate nel primo nostro incontro seguendo proprio le indicazioni del percorso formativo nazionale avevamo prefissato come punti essenziali delle nostre riflessioni, ciò che Paolo VI già nel 1967 proprio in occasione dell’anno della fede, da lui indetto per la prima volta, ha consegnato all’uomo: “la chiesa deve prendere esatta coscienza della sua fede, per ravvivarla, purificarla, per confermarla, per confessarla”. Quattro verbi che esprimono in che modo dobbiamo vivere la nostra fede e questa sera in modo particolare cercheremo di fare una sintesi del nostro percorso formativo collocando ad ogni verbo i temi che di volta in volta sono stati sviluppati.
La fede nel senso di ravvivarla.
Come scrive il papa nella lettera per l’anno della fede, rinvigorire e rinsaldare la nostra completa adesione in Dio, oltre ad essere la conoscenza del Catechismo della chiesa Cattolica e i documenti del concilio, è necessario ridefinire l’immagine che ciascuno di noi ha di Dio per evitare il rischio che la nostra fede diventi solo dottrina cioè contenuti di fede che possiamo anche conoscere alla perfezione ma se sganciati dall’ascolto della Parola di Dio e dalla risposta che ad essa siamo chiamati a dare, ogni nostro impegno, non contribuirà ad una rinnovata conversione nel Signore Gesù né tantomeno porterà alla riscoperta della fede. Dunque da dove possiamo partire per consolidare la nostra appartenenza in Dio. Indicativo a tal proposito è stato il testo di Marco (8,27-33).
“Chi sono io per voi?” Una domanda che è sottintesa a tutte le nostre relazioni umane. Pietro dà una risposta alta e perfetta che colpisce profondamente Gesù. Pietro, come sappiamo, avrà tutta la sua vita, fino al martirio, per rispondere a Gesù “chi sono io per te”. Non sarà una risposta sempre lineare e coerente, ma avrà la sua evoluzione, che passerà dall’entusiasmo della prima chiamata sul lago di Tiberiade, al tradimento la sera dell’arresto, fino al pentimento e alla testimonianza dopo la resurrezione. Questa domanda Gesù la rivolge anche a noi come comunità e come singoli: “chi sono io per voi e per te?” Non basta una risposta “da catechismo”, ma Gesù vuole una riposta fatta con i gesti e la vita. Una comunità che vive una fede solo di facciata domenicale, fatta di qualche rito e processione e non evolve nella solidarietà reciproca, nella comunione, nel perdono… è una comunità che alla domanda “chi sono io per voi” risponde con un “sei una bella tradizione” e basta..
Più volte Gesù si lamenta della scarsa fede. Esplicito è il richiamo rivolto alla folla, accorsa per ascoltarlo: “Gente di poca fede” (Mt 6,30; Lc 12,2). Analogo rimprovero è rivolto a Pietro che, impaurito per il forte vento e poco fiducioso nell’aiuto del Signore, teme di essere sommerso dalle acque: “Uomo di poca fede, perché hai dubitato?” (Mt 14,31). La maturità della fede è sempre un traguardo al quale continuamente tendere. Come i cristiani di Corinto sovente anche noi siamo ancora dei principianti nella fede (cfr. 1 Cor 3,1-2; anche Eb 5,12). La crescita nella fede, fondata sul dono dall’Alto, impegna ciascuno in una risposta libera e volontaria, per andare oltre alla ripetitività, a qualche pratica religiosa, o all’osservanza di limitate norme morali. L’atto di fede è principalmente una relazione personale con il Signore, capace di orientare la nostra vita, i nostri rapporti con le persone e le cose. Esso si caratterizza per una duplice dimensione: conformità a Cristo nel modo di pensare e di agire, piena disponibilità a servire i fratelli. Un cammino così impegnativo si realizza principalmente con l’aiuto del Signore.
Sui passi di Gesù
È l’invito di san Paolo: “Abbiate in voi gli stessi sentimenti di Cristo Gesù” (Fil 2,5). Da una parte
si tratta di entrare nella “logica” di Gesù: pensare, giudicare, agire, sperare come lui29. Dall’altra, occorre fare proprio il comportamento del Signore, improntato ad amabilità e accoglienza delle persone, a vicinanza e solidarietà, a compassione e misericordia, a sobrietà e povertà, a verità e pazienza, a fedeltà al Padre e amore agli uomini. La relazione verticale con Dio non può essere separata da quella orizzontale con gli uomini, così come devono restare uniti l’amore a Dio e l’amore al prossimo.
A servizio degli altri
La pietra di paragone dell’autentica fede è la disponibilità a mettere la propria vita al servizio degli
altri, contro ogni ripiegamento su se stessi o la ricerca di vantaggi personali. Affidarci pienamente
al Signore è consegnarci nelle sue mani, perché ci metta in stato di servizio ai fratelli. È l’esplicita
richiesta di Gesù, preceduta dal suo esempio: “I governanti delle nazioni dominano su di esse e i
loro capi le opprimono. Tra di voi però non sia così; ma chi vuole diventare grande tra voi sarà
vostro servitore, e chi vuole essere il primo tra voi sarà schiavo di tutti. Anche il Figlio dell’uomo
infatti non è venuto per farsi servire, ma per servire e dare la propria vita in riscatto di molti” (Mc
10,42-45).
2. La fede nel senso di purificarla
Per capire in che misura la nostra fede va migliorata, purificata e vissuta ci siamo soffermati sulla mirabile lettera di S. Giacomo che da dei veri e propri orientamenti circa il modo di concepire il nostro cristianesimo: 2,14 Che utilità c’è, fratelli miei, se uno dice di avere la fede ma non ha le opere? Può forse la fede salvarlo? 15Se ci sono un fratello o una sorella mal vestiti e
mancanti di nutrimento quotidiano 16e uno di voi dicesse loro: «Andate in pace,
scaldatevi e saziatevi», ma non date loro ciò che è necessario per il corpo, a che
giova? 17Così anche la fede: senza le opere, è morta in se stessa. 18Ma qualcuno
dirà: Tu hai la fede e io ho le opere; mostrami la tua fede senza le opere, e io ti
mostrerò dalle mie opere la fede. 19Tu credi che esiste un solo Dio? Fai bene;
anche i demòni credono e tremano! 20Ma vuoi riconoscere, o uomo vano [vuoto],
che la fede senza le opere è inutile? 21Abramo, nostro padre, non fu giustificato
dalle opere, avendo condotto il figlio suo, Isacco, sull’altare? 22Vedi che la fede
cooperava insieme alle sue opere, e che la fede fu completata dalle opere 23e si
compì la Scrittura che dice: Abramo credette a Dio e gli fu accreditato come
giustizia, e fu chiamato amico di Dio. 24Vedete che dalle opere dell’uomo viene
giustificato e non dalla fede soltanto. 25Similmente anche Raab, la prostituta,
non fu forse giustificata dalle opere quando ospitò agli invitati e li rimandò per
altra strada? 26 Come infatti il corpo senza spirito è morto, così anche la fede
senza opere è morta.
La fede: un’efficace relazione d’amore
La fede di cui gli apostoli parlano è proprio questa relazione d’amore con il Signore.
Che utilità c’è, fratelli miei, se uno dice di avere la fede ma non ha le opere?
Dove è l’utile? Molte volte noi siamo convinti che sia fondamentale difendere dei principi di fede, difendere delle teorie. Molte persone che discutono con noi discutono su questioni teoriche: su cosa fa Dio, su cosa fa la Madonna, su cosa fa il papa; e questo si può dire, e questo non si può dire. A che cosa serve? Non basta dire per essere cristiano che uno va in chiesa e l’altro no se poi ad esempio sul posto di lavoro si assume un atteggiamento che non ha nulla a che fare con il nostro cristianesimo. È qui il problema! Se non ci sono le opere la fede è morta, è un corpo morto: è il caso della fede intesa semplicemente come adesione teorica, condivisione di idee. La fede invece che è amore, relazione di fiducia che incontra il Signore personalmente, quella fede cambia la vita, segna fortemente la vita; quella fede è l’accoglienza alla grazia di Dio. Il rischio – soprattutto di noi preti – è di fare tante belle parole e qui san Giacomo rimprovera proprio questo atteggiamento. Non basta dire: “Andate, mangiate e riscaldatevi”, bisogna fare qualcosa; la teoria senza la pratica non ha utilità. La rivelazione di Dio, l’opera di Gesù Cristo non è una bella teoria, ma è il dono di una capacità di intervenire praticamente per cambiare la realtà. Soprattutto noi preti molte volte ci accontentiamo di fare delle teorie: è così, non è così, bisognerebbe, andate in pace e fate come potete; parole e ancora parole. In genere si usa la forma al condizionale: “bisognerebbe che qualcuno facesse”, “dovremmo impegnarci di più”, sarebbe bello se…”. I nostri linguaggi di Chiesa, i nostri consigli, le nostre riunioni sono sempre di questo tenore; a dare consigli sono capaci in tanti, quasi tutti sono buoni consiglieri. “Ci vorrebbe qualcuno che facesse…”; ma è sempre qualcun altro che… dovrebbe fare. “Bisognerebbe cantare meglio, ci vorrebbe qualcuno che cantasse”; non però che io mi posso impegnare a studiare, a cantare meglio. Vedo un problema, mi impegno, mi prendo a cuore la situazione e cerco di fare qualcosa io: questo è il comportamento giusto. Anche nelle nostre comunità c’è il rischio della teorizzazione, del “bisognerebbe”, ma sono sempre gli altri quelli che dovrebbero fare qualcosa.. Questo è un atteggiamento di fede morta, di fede che non giova.
mostrami la tua fede senza le opere
Come faccio io a capire che tu credi in Gesù Cristo se non me ne accorgo dalle opere? Solo con le opere io ti posso mostrare la fede. Attenzione però, anche qui non è questione semplicemente del fare delle cose. Non è un fare diverso – come il tipo di attività – mi faccio prete, mi faccio suora, quindi sono una persona di fede; ad esempio due persone sono medici , uno è cristiano e l’altro no; la fede in questo caso non si vede se il medico cattolico va in chiesa la domenica; No!, carissimi, assolutamente. Non si vede che quel medico è cristiano perché va anche in parrocchia a fare catechismo, si vede da come cura gli ammalati; che non è dato dalle sue capacità come medico, ma dalla sua accoglienza dei malati, dalla sua com–passione e partecipazione umana ai problemi dei pazienti, dalle attenzioni e dalla pazienza che dimostra verso chi si affida alle sue cure. Sono quelle le opere della fede. Noi abbiamo l’idea che una persona di fede va in parrocchia a fare qualcosa. Distribuisce i foglietti in chiesa… allora è una persona di fede. Faccia piuttosto bene il medico, faccia bene l’infermiera, faccia bene l’idraulico, faccia bene la maestra, e così via per tutte le realtà; quelle sono le opere della fede. Abbiamo creato molte volte delle divisioni e della separazioni: uno fa il mestiere come può, come vuole, poi – per essere una persona di fede impegnata – va anche a fare qualcosa in parrocchia. Sono divisioni strane, ma purtroppo sono radicate. Si capisce anche se una suora o un prete hanno fede, perché questo non è scontato. È possibile trovare dei preti che non credono; certamente dicono il Credo, sanno la teoria e te la spiegano, fanno la predica e ti dicono le cose, ma è possibile che quella adesione personale al Signore non ci sia. Te ne accorgi e la gente se ne accorge. Anche per una suora può essere la stessa cosa: fa le cose, ha l’abito, dice tutte le preghiere, ma è possibile che non ci sia una adesione di fondo, una adesione convinta, matura, che coinvolge tutta la persona, che produce gli effetti.
Il pericolo di essere “vuoti”
Attenti, perché è possibile essere persone vuote. L’apostolo Giacomo usa delle espressioni forti…
Ma vuoi riconoscere, o uomo vuoto, che la fede senza le opere è inutile?
Si sta rivolgendo sicuramente a persone di fede, a persone che sono lì riunite in assemblea, magari che sono a Messa, e parla di una persona vuota. Non è tanto questione di essere “insensato”, quanto piuttosto “inconsistente”: in greco dice kenós, cioè proprio “vuoto, inutile, insignificante”. È possibile, è un pericolo, un rischio anche per noi quello di essere persone vuote, inconsistenti.
Un altro aspetto della fede è proprio quello del fondamento, dell’essere fondati e il fondamento è Dio, è Gesù Cristo, fondati in lui; non persone leggere, portate dal vento delle passioni, dei gusti, dei lussi delle mode. È possibile che certi atteggiamenti di fede siano inutili e che noi siamo vuoti, vani, senza consistenza. Sono parole anche pesanti che non devono suonare come rimproveri, ma come occasione di verifica, proprio per gli esercizi; sono gli esercizi dello spirito perché ognuno di noi si interroghi: ma io sono consistente o vuoto? Esiste realmente questa mia relazione con il Signore che determina le opere che faccio? Quello che faccio, lo faccio per amore, come conseguenza? Abramo credette in Dio al punto da arrivare a offrirgli il figlio. Il Signore lo fermò, ma la fede di Abramo non si è fermata a dire: “Credo in un solo Dio”; proprio perché credeva – perché si fidava – era pronto a tutto. Anche una donna di cattivi costumi come Raab accolse gli esploratori in Gerico: è l’immagine della chiesa dei pagani che hanno accolto gli apostoli come esploratori mandati da Giosuè – che è lo stesso nome di Gesù. Anche noi, Chiesa che viene dalle genti come Raab, possiamo accogliere i predicatori, i messaggeri di Gesù, gli apostoli, e accoglierli sul serio; accoglierli e assimilare la loro mentalità: credere come loro credevano e vivere come loro vivevano. Dunque, è necessario che ci sia una vita concretamente buona, è necessario che la fede diventi vita, diventi stile di vita, non teoria, ma vita. Il Signore ci ha salvato gratis, il Signore ci regala il paradiso, ma – avendoci fatto un grande dono – ci chiede di usare questo dono. La grazia, la salvezza, è proprio un regalo che cambia la nostra vita; il modo migliore per rispondere a chi ci ha fatto un regalo è usare bene il regalo, è valorizzare il regalo. È proprio questo il punto: nella nostra vita la fede serve o non serve? Il fatto di credere produce qualche effetto dentro di noi o no? A che giova avere fede? La domanda è seria. Si vede dal tuo comportamento che hai fede? Se non avessi fede come faresti, ti comporteresti in modo diverso? Chiediamo al Signore che risvegli in noi la fede e ci faccia diventare sempre di più coerenti nella vita concreta; vogliamo manifestare la adesione al Signore. Anche i diavoli credono. Come sarebbe a dire che i diavoli credono? Dipende da cosa intendiamo. Il diavolo non si fida di Dio, non si affida a Dio, ma sa che c’è. Anche lui sa che c’è un Dio solo, che ha un figlio che si chiama Gesù Cristo, che ha mandato lo Spirito Santo. Tutto questo lo sa anche il diavolo; dicono addirittura che il diavolo sia il miglior teologo! Sa tutte queste cose, ma non vive di conseguenza; non c’è un cambiamento nella sua vita. Sa la teoria, ma non vive come Dio e allora? Allora la nostra fede deve essere diversa da quella del diavolo, essendo una fede che aderisce al Signore per essere come il Signore.
3. La fede nel senso di confermarla
Al terzo aspetto di una fede che deve essere confermata, abbiamo associato come punto cardine del nostro rapporto con Dio, la persona di spirito che si abbandona totalmente a Dio.
S. Paolo dice: “Nessuno di noi vive più per se stesso, ma se viviamo, viviamo per il Signore, se moriamo, moriamo per il Signore. Sia che viviamo, sia che moriamo, siamo dunque del Signore” (cfr. Rom. 14,) Un’affermazione questa che si può considerare come il fondamento della spiritualità dell’abbandono. Cristo ci ha riscattato dal nostro vano modo di vivere, per farci vivere una vita nuova, una vita certa, piena di senso e di valore, nel tempo e nell’eternità. S. Paolo concludeva l’espressione citata, dicendo: “Per questo infatti Cristo è morto ed è ritornato alla vita: per essere il Signore dei morti e dei vivi” (Rom. 14,9).
Gesù nel Vangelo fa, a sua volta, quest’affermazione: “Chi ama la sua vita, la perde e chi odia la sua vita in questo mondo, la conserverà per la vita eterna” (Gv. 12,25). Anche quest’affermazione è un fondamento solidissimo della spiritualità dell’offerta. Solo offrendo la nostra vita al Signore Gesù e vivendo per lui, noi ci salviamo, perché entriamo in possesso della vita vera, quella di Dio, che troviamo nell’unione con Cristo. Se invece non vogliamo fare della nostra vita un’offerta a Dio, ma, considerandola gelosamente nostra, la mettiamo al centro di tutto, la perdiamo, perché nessuna creatura è centro. La spiritualità dell’offerta è dunque, la vita concreta vissuta nell’abbandono di sé a Dio mediante la generosa sequela di Cristo e l’unione spirituale con Lui. S. Paolo dice di quanti vivono realmente secondo la spiritualità dell’offerta: “Voi siete morti e la vostra vita è ormai nascosta con Cristo in Dio. Quando si manifesterà Cristo, la vostra vita, allora anche voi sarete manifestati con Lui nella gloria” (Col. 3,3-4).
Abbandonarsi alla volontà di Dio
“Entrando nel mondo, Cristo dice: “Tu non hai voluto né sacrificio né offerta, un corpo invece mi hai preparato. Non hai gradito né olocausti né sacrifici per il peccato. Allora ho detto: Ecco, io vengo – poiché di me sta scritto nel rotolo del libro – per fare, o Dio, la tua volontà” (Eb.10,5-7).
Cristo viene nel mondo per fare della sua vita un’offerta alla volontà del Padre. Con questa decisione tutta la vita di Gesù diviene il vero sacrificio gradito a Dio. Da quel momento Dio ha abolito tutti i sacrifici antichi, fatti di animali e cose, ed ha manifestato in Cristo qual è il vero sacrificio che lui gradisce da parte nostra: fare la sua volontà. Al centro del Padre nostro, Gesù ci insegna a dire: “Padre, sia fatta la tua volontà come il cielo così in terra”. La volontà del Padre desiderata, conosciuta e compiuta: ecco ciò che dobbiamo chiedere nella preghiera. Fuori di questa ottica, non c’è preghiera gradita a Dio. Preghiera e vita vissuta di Dio diventano così una sola cosa e formano quel sacrificio spirituale gradito a Dio, che sale dalla terra al cielo attraverso Cristo, il perfetto realizzatore della volontà del Padre. Al fine di poter compiere quanto il Padre Celeste desidera è necessario che la nostra volontà, il nostro cuore, centro vitale, da cui si diparte la volontà, diventino spirituali.
La vita cristiana è vita in Dio, ma questa vita è possibile solo nella carità. Lo afferma chiaramente S. Giovanni: “chi sta nell’amore, dimora in Dio e Dio dimora in lui” (1 Gv. 4,16). Questo amore di Dio però non è solo affettivo, ma anche operativo nelle azioni, indicate dai comandamenti: “Chi accoglie i miei comandamenti e li osserva, questi mi ama… Se mi amate, osservate i miei comandamenti” (Gv.14,21.15). L’offerta di sé all’Amore implica anche l’offerta all’osservanza di tutti i comandamenti evangelici. Tutto l’uomo interiore è impegnato per il Signore. Le opere esterne sono il frutto di questa dedizione totale del cuore al Signore che ha il suo culmine nel comandamento della carità fraterna. Ciò significa che al vertice della perfezione cristiana volontà di Dio e carità coincidono.
S. Paolo così descrive una vita tutta pervasa dalla volontà di Dio: “Fatevi dunque imitatori di Dio, quali figli carissimi, e camminate nella carità, nel modo che anche Cristo vi ha amato e ha dato se stesso per noi, offrendosi a Dio in sacrificio di soave odore” (Ef. 1-2).
Riscoprire la semplicità del cuore
Gesù nel Vangelo più volte richiede ai suoi discepoli di “diventare come bambini” per entrare nel regno dei cieli (Mc. 10,13-16). “A chi è come loro appartiene il regno di Dio”. Il fatto che i discepoli “sgridavano i genitori che presentavano i bambini a Cristo, perché li accarezzasse”, indica che essi erano molto lontani dal realizzare la somiglianza con loro in senso spirituale. Così pure, il fatto che gli stessi discepoli, poco prima, discutevano tra di loro chi fosse il più grande (Mc.33-37) dimostra quanto fossero lontani dal realizzare l’ideale di servizio e di umiltà su cui Gesù voleva incamminarli: “Se uno vuol essere il primo, sia l’ultimo di tutti e il servo di tutti”. Possiamo riassumere l’insegnamento di Cristo circa la necessità di accogliere il Regno di Dio come un bambino, col dire che Gesù vuole indicarci il ritorno alla semplicità di cuore, come via che ci conduce al Regno. La semplicità richiesta da Gesù e simboleggiata dal bambino si manifesta in molteplici modi. Essa è una virtù generale, che si manifesta sotto diversi aspetti. Possiamo enumerarne alcuni. La prima è la totale fiducia e abbandono al Signore, alle sue vie, anche quando queste sono alte e misteriose per la nostra limitata natura umana. Chi è semplice di cuore, segue con prontezza Dio nelle sue vie, senza mettersi a discutere con Lui, senza dare spazio a riserve. Con totalità di cuore si abbandona nelle mani del Signore, sicuro che in Dio può trovare solo bene. Chi è semplice in tal modo, è nella disposizione migliore per ricevere con abbondanza le benedizioni del Signore.
Un altro aspetto meraviglioso che emana dalla semplicità del cuore è l’assoluta assenza di malizia, di frode, di ipocrisia, di inganno, di maldicenza, e di cose simili. Questo ideale, designa un atteggiamento molto positivo con cui ci si mette in relazione con il prossimo in genere. Da questa semplicità di cuore nasce la bontà, la disposizione al bene verso il prossimo, a coprire le mancanze con la carità, a promuovere e a godere del bene dell’altro, a cercare sempre ciò che è giusto e retto nel dirimere le molteplici situazioni della vita. Questo ideale di semplicità di cuore è espresso così da S. Paolo: “Fate tutto senza mormorazioni e senza critiche, perché siate irreprensibili e semplici, figli di Dio immacolati in mezzo ad una generazione perversa e degenere, nella quale dovete splendere come astri nel mondo, tenendo alta la parola di vita”. Ancora S. Paolo considera chi ha raggiunto la semplicità del cuore, capace di questo comportamento: “Comportatevi come i figli della luce; il frutto della luce consiste in ogni bontà, giustizia e verità” (Ef. 5,8-9); “In conclusione, tutto quello che è vero, nobile, giusto, puro, amabile, onorato, quello che è virtù e merita lode, tutto questo sia oggetto dei vostri pensieri… E il Dio della pace sarà con voi!” (Fil. 4,8-9).
Un cuore semplice in senso evangelico è il terreno fertile di tutte queste dinamiche interiori indicate da S. Paolo e designa una perfetta vittoria sul peccato, sul mondo e su Satana. Questo è l’ ideale che arricchirà il nostro cuore di grandi virtù, per crescere e dimorare in Dio, che attraverso il suo esempio ha tracciato all’uomo la via maestra della vera felicità.
4. La fede nel senso di testimoniarla
La fede ha due dimensioni indissociabili: nasce dall’ascolto (Rom 10,17) ed è dunque questione di sequela; e per sua intrinseca natura chiede di essere vissuta e testimoniata nella concretezza della storia.
a) La fede: vissuta e testimoniata
Più noi ritorniamo al Signore, più sentiamo la necessità di farne dono a tutti. Paolo VI ci ha ricordato che «l’uomo contemporaneo ascolta più volentieri i testimoni che i maestri, o se ascolta i maestri lo fa perché sono dei testimoni» (EN 41). Il Concilio Vaticano II in riferimento ai compiti della Chiesa ha parlato per più di cento volte di testimonianza.
Dobbiamo però, riconoscere che nelle nostre comunità accade spesso che il vero ostacolo all’accoglienza del Vangelo non sia il Vangelo, ma la testimonianza dei credenti. Se ascoltiamo le persone, non solo quelle che hanno preso distanza da noi, ma anche i cristiani, anche le stesse persone che fanno parte delle nostre famiglie, in particolare i giovani, ci dicono senza mezzi termini che il più grande ostacolo del Vangelo oggi è la Chiesa. Parlano certo della gerarchia, parlano del Vaticano, dei preti, degli scandali che ci sono stati e continuano ad esserci. Ma parlano anche delle nostre parrocchie e di coloro che si dicono cristiani ma che vivono come se non lo fossero. Siamo noi, purtroppo, non raramente la caricatura del Vangelo per le donne e gli uomini di oggi. Bisogna unire l’audacia dell’annuncio esplicito con l’impegno a fare di noi stessi e delle nostre comunità ecclesiali una figura concreta di questo annuncio, un quinto Vangelo non scritto su un libro, ma scritto nella nostra vita, nel nostro modo di trovarci, di celebrare, di stabilire i rapporti tra di noi nella comunità, di gestire l’autorità, di utilizzare le risorse economiche di cui la Chiesa dispone, di avere stili di vita evangelici, di aprire il cuore e le mani a tutti coloro che sono feriti dalla vita. Se annunciamo Gesù con la bocca, nella catechesi, nelle omelie, e anche parlando con le persone, ma presentiamo un volto di comunità che non conferma le parole che diciamo, allora la gente non si inganna: crede a quello che facciamo vedere più che a quello che diciamo.
In questi anni che ci separano dal Concilio, abbiamo fatto molti miglioramenti nel campo della catechesi, anche se molto resta ancora da fare. Ci si è attrezzati a qualificare i formatori, a “moltiplicare” convegni, studi ecc.; ma la comunità ecclesiale è rimasta spesso uno sfondo anonimo, un luogo impersonale, un riferimento a scarsa qualità relazionale e spirituale. L’annuncio fatto dalla catechesi è così rimasto non raramente parola verbale, senza riscontro esistenziale in una comunità di donne e uomini che ascoltano la Parola, la celebrano nei riti, la traducono in stile di vita, la manifestano nella passione e nella compassione per l’uomo. Come costruire un volto di comunità che sia in se stessa un Vangelo e vivere pienamente l’affermazione di S. Paolo: “con la bocca si crede e con il cuore si fa la professione di fede” (Rm 10,10)? Su quattro piste si basa l’impegno di revisione delle nostre comunità perché siano luoghi dove il Vangelo è vissuto e testimoniato .
a) Una Chiesa discepola
Primo elemento su cui puntare è una chiesa in stato di formazione. «Ecco, la attirerò a me, la condurrò nel deserto e parlerò al suo cuore» (Os. 2,16). E’ un invito ai cristiani perché accolgano la chiamata a riascoltare il Vangelo come se fosse la prima volta, a riscoprire il tesoro di cui sono portatori, a recuperare lo stupore e l’amore forse appannato per l’usura del tempo. L’ascolto costante della parola di Dio, la lettura del Vangelo fatta insieme è la base della vita della Chiesa. Una Chiesa discepola è una Chiesa che prega e che celebra, che si raduna fedelmente nell’eucaristia domenicale, perché la preghiera e la liturgia sono quel tempo inutile (vacare Deo), cioè gratuito, nel quale il Signore plasma il volto della Chiesa, ci rende lui quello che desidera che noi siamo. La lettura del Vangelo, la preghiera e la liturgia vanno poi accompagnati con un altro ascolto: quello delle donne e degli uomini di oggi, dei giovani in particolare e dei poveri. Una Chiesa discepola ascolta il Vangelo, prega, ascolta le persone. L’ascolto del Signore, la sua sequela, passa da questi due ascolti. Ne deriva che la prima attività pastorale della Chiesa è la sua passività.
b) Una Chiesa sinodale
Il secondo tratto del volto di Chiesa che il Concilio ci ha lasciato è quello di una Chiesa comunione
di comunità, una Chiesa fraterna al suo interno e con atteggiamento fraterno verso tutti, una Chiesa
che diventi segno, nel suo stesso modo di relazionarsi ed organizzarsi, dell’amore di Dio. Riconosciamolo. Non raramente sentiamo che ciò che detta i rapporti tra di noi non sono la carità e la reciproca stima, ma l’indifferenza, l’ambizione, la gelosia dei propri settori, l’individualismo. Lo Spirito ci invita a divenire una Chiesa dallo stile sinodale, nei rapporti reciproci, nell’articolazione di carismi e ministeri, nelle strutture e negli organismi di partecipazione, nella progettazione pastorale. Ciò che è prioritario per tutti è la sequela del Signore Gesù e questa sequela non è un minimo comune denominatore, ma il massimo a cui tendere insieme e da cui partire insieme. Da questa base sicura non può che scaturire un agire missionario concordato, uno stile pastorale di unione delle forze, di collaborazione e di scambio di doni, perché l’unica cosa che sta a cuore a tutti è che il dono del Vangelo non manchi a nessuno. E’ l’unico modo possibile per assumere con responsabilità il mandato del Signore di annunciare il Vangelo e la vita buona che esso promette a tutte le creature (Mt 28,19).
c) Una Chiesa compagna di viaggio
A questa capacità di comunione, di collaborazione e di amore al proprio interno, corrisponde un atteggiamento estroverso e aperto al dialogo con tutti. Bisogna infatti essere ingenui nel pensare che se non siamo capaci di collaborazione e di amore tra di noi, non lo diventeremo magicamente nei riguardi delle persone che non appartengono alla nostra comunità, nei riguardi dei giovani, degli adulti, di chi appartiene ad altre confessioni cristiane, ad altre religioni, o semplicemente non crede. Il terzo tratto del volto di Chiesa è dunque quello di una Chiesa compagna di viaggio. Il Card. Dionigi Tettamanzi al Convegno di Verona diceva che siamo chiamati a parlare «non solo di speranza, ma anche e innanzitutto “con” speranza. La lettura che come cristiani facciamo del tempo presente spesso è piena di “ismi”. Vediamo negli altri tutti i rischi e tutti i limiti. Abbiamo poca speranza. E’ la conseguenza dei due punti precedenti: ascoltiamo poco il Vangelo, ci amiamo poco, abbiamo poca fiducia e speranza negli altri. La lettura dominante che facciamo dei giovani, di quello che sta accadendo, del futuro del mondo è una lettura depressa. Non si tratta di avere un ottimismo ingenuo: ci sono molti segni di disumanizzazione e di vuoto interiore, ma c’è tanta ricerca di vita buona, tanta solidarietà. Dobbiamo allora insieme ricuperare quanto la Gaudium et Spes ci ha insegnato: la Chiesa ha molto da dare alla cultura attuale, ma anche molto da ricevere. Non siamo nel mondo “di fronte agli altri”, siamo con gli altri. Abbiamo il dono del Vangelo da offrire, abbiamo una parola di Vangelo da ascoltare da loro, da tutti, perché lo Spirito Santo ci precede, ha una falcata di vantaggio su di noi. Quando noi arriviamo, lui è già nel cuore delle persone, e a ben pensarci, noi non portiamo nulla: aiutiamo le persone a vedere che in loro c’è già la presenza di Dio, il suo amore. Li aiutiamo a riconoscere questa presenza, perché come Giacobbe, si sveglino dal sonno e dicano: «Il Signore era qui e io non lo sapevo!» (Gen 28,16). Come al nostro interno siamo chiamati a vivere la complementarietà e la collaborazione, così all’esterno siamo chiamati a vivre la reciprocità: ad ospitare e lasciarsi ospitare.
d) Una Chiesa solidale
L’ultimo tratto, quello decisivo, è allora quello non del giudizio sul mondo, ma della passione e della compassione per l’uomo. Tutto ciò che è umano ci appassiona e ci fa compassione ogni ferita inferta nell’umanità delle persone. E’ la carità la parola ultima del Vangelo. In genere noi pensiamo che la carità sia il passo preliminare per preparare il terreno dell’annuncio, una sorta di pre-evangelizzazione. Non pensiamo invece che essa è anche il traguardo ultimo dell’evangelizzazione, il suo esito finale. La carità basta, perché la carità è Dio (1Cor 13). La consapevolezza che l’esito finale della storia è il Regno di Dio (e non la Chiesa) conferisce alla comunità cristiana tutta la forza e tutta la debolezza evangelica del suo essere sacramento, segno dell’amore di Dio per ogni creatura. La Chiesa sperimenta ed annuncia la forza liberante del Vangelo quando si mette dalla parte di chi è svantaggiato e si fa buon Samaritano di chiunque si trovi ai margini della vita. Per questo l’impegno politico dei cristiani va considerato una forma alta di carità. Una Chiesa discepola, sinodale, compagna di viaggio e solidale: ecco il volto di comunità che annuncia il Vangelo con le parole e con la sua stessa vita e fa propria l’eredità del Concilio.
3. Conclusioni.
Con questo riepilogo generale da parte mia chiudo i miei interventi su temi riguardante il nostro essere cristiani e il nostro vivere da terziari inseriti nella famiglia minima. L’unico augurio e non aggiungo altro è che i terziari minimi a partire in primis da questa fraternità possano al pari delle altre associazioni sprizzare di santità e gioia per quanto si è scelto di vivere, convinti che pur vivendo in comunità anche se possono subentrare incomprensioni, tuttavia deve essere più forte la carità e l’amore vicendevole che tutto vince. Questa è la nostra missione ed è questa la Chiesa che ha sempre bisogno di essere evangelizzata, se vuol conservare freschezza, slancio e forza per annunciare il Vangelo» (EN 15).
P. Antonio Casciaro